La via normale alla Cima Grande di Lavaredo è il sogno della vita per molti escursionisti amanti delle Dolomiti. Anni fa c’era stato un piccolo sondaggio tra le Guide Alpine Venete e Sudtirolesi su quale fosse la salita più gettonate durante la stagione estiva. Mi par di ricordare che fosse il sentiero Ivano Dibona sul Cristallo la ferrata più richiesta, per i nostri colleghi della provincia di Bolzano era proprio la normale alla Grande al primo posto. La Normale alla Cima Grande di Lavaredo è sicuramente una via molto bella e adatta anche a chi l’alpinismo l’ha solo sognato guardando immagini o leggendo relazioni su riviste o in Internet, ma che può diventare realtà con l’aiuto di una guida alpina. Non pensate che io abbia accompagnato centinaia di persone su questa cima, quando gioco in casa preferisco e riesco spesso a variare, per assurdo penso di aver guidato più persone sulla normale al Monte Bianco che sulla Grande di Lavaredo! Quando mi capita (uno o due volte l’anno), lo faccio sempre con grande passione, cercando di trasportare i miei compagni di cordata indietro nel tempo, in quella avventura pazzesca che devono aver affrontato i primi salitori, Paul Grohmann Franz Innerkofler e Peter Salcher nel 1869. Solo così si può apprezzare a pieno l’avventura, lungo un percorso che si svela passo dopo passo, cengia dopo cengia, inseguendo la linea di minor resistenza fino a raggiungere la vetta.
Andrea è da sempre un grandissimo appassionato di montagna, ci siamo scritti più di qualche messaggio sulle chat riguardo al Selvaggio Blu, ma presto le nostre chiacchiere si sono spostate sulle Dolomiti. Mi aveva chiesto di accompagnare lui e il suo amico lungo la Strada degli Alpini sulle Dolomiti di Sesto. Voglio essere sincero come lo sono stato con lui, non è la mia grande passione guidare le persone lungo una via ferrata, penso che per persone con un buon livello di escursionismo non ci sia molto da imparare da un professionista su un percorso già preconfezionato e ottimamente attrezzato. Quando la richiesta arriva da due persone, ci sono uscite più interessanti che si possono fare insieme ad una guida, e dove la guida è veramente fondamentale per gestire la sicurezza e la buona riuscita della gita.
“Andrea, pensa alla normale alla Grande di Lavaredo. E’ qualcosa nelle vostre possibilità, ma senza Guida (o senza qualcuno di esperto in materia) non potreste andarci”. Ecco, l’obiettivo l’avevamo trovato già trovato, e l’abbiamo raggiunto in una bella mattinata di settembre. Ho chiesto ad Andrea di scrivere qualcosa riguardo la nostra esperienza insieme sulla Tre Cime, qui sotto avete un suo piccolo racconto. Buona lettura!
“Cima Grande di Lavaredo, via normale”.
I luoghi sono animati. I latini avevano coniato l’espressione genius loci per definire l’entità che li anima e dona loro quelle caratteristiche di unicità che li contraddistingue. Il genius loci lo possiamo percepire in base alla sensibilità personale. Lo scrittore e giornalista bellunese Dino Buzzati aveva dimestichezza con questa entità tanto da fare dei geni quasi i protagonisti del bellissimo romanzo di formazione che è il Segreto del Bosco Vecchio. Chi non ricorda il Bernardi, uno dei geni che dà anima al bosco che il duro colonnello Procolo vuole sfruttare?
Questi geni regalano un’energia particolare ai luoghi. Quando percepiamo la loro presenza sentiamo come un vibrare che tocca le corde più profonde del nostro io.
Per Buzzati la capacità di sentire i geni, di interagire con loro, si esaurisce crescendo, perdendo l’innocenza della fanciullezza. Quanto più teniamo vivo il puer che ci anima, tanto più possiamo continuare ad avere la speranza di incontrarli.
Mi è capitato poche volte di sentire i geni che abitano i luoghi manifestarsi. La prima volta è stato a Capri, l’isola degli dei. Lì il blu profondo del mare, i turchesi sotto costa, il bianco spumeggiare delle onde si incontrano con il verde della macchia mediterranea, i rossi e i viola delle buganvillee. I profumi di fichi maturi, di lentisco, di elicriso e di altre essenze, di cui ora scordo il nome, inebriano i sensi.

La ricerca del facile nel difficile lungo la prima parte della via normale alla Cima Grande di Lavaredo.
Vibrazioni analoghe le ho sentite una seconda volta a St. Moritz. Avevo visitato il museo che ospita i dipinti di Giovanni Segantini. Non si può rimanere indifferenti di fronte a quei paesaggi catturati dal pennello del grande pittore in una luce tanto reale che ti abbaglia. È la luce dell’Engadina. E capisci subito perché tanti artisti l’hanno scelta, tra gli altri Giacometti, per trovarvi ispirazione.
Poi è successo che questa estate il vibrare dei geni di un luogo l’ho sentito intensamente per ben due volte.
È sabato primo agosto. Dopo una notte al rifugio Gnifetti, 3647 metri, gruppo del Monte Rosa, sveglia che non è ancora l’alba. Salgo il ghiacciaio del Lys fino all’omonimo colle, 4151 m., dove sono sorpreso dal più bel sorgere del sole della mia vita. Davanti a me la Roccia della Scoperta, un nome che di per sé è già molto evocativo e che racconta di un gruppo di giovani gressonari che sul finire del ‘700 parte alla ricerca di una leggendaria valle perduta che credono di aver trovato in quella di Zermatt. Quel luogo è ancora animato dal loro entusiasmo, dal loro spensierato coraggio. Li ho visti, vestiti con i loro abiti di panno pesante, i loro cappelli piumati da caccia, issarsi su quella cresta rocciosa per sporgersi a guardare oltre l’orizzonte. I geni pervadono i cristalli di quel ghiaccio che pensavamo eterno e che vorremmo lo fosse.
Passa un mese e qualche giorno, è l’11 settembre. Percorro la strada d’Alemagna. L’auto costeggia il lago di Landro. È mattina presto ed è ancora buio. Nella notte è piovuto. Le nuvole sono basse. Alle 6.30 ho appuntamento con la guida a Misurina. Dobbiamo salire al rifugio Auronzo. Obiettivo della giornata è raggiungere la vetta della Cima Grande di Laveredo, 2999 metri. Quella montagna è un tarlo che mi assilla da qualche mese, da quando l’ho ammirata, in gennaio, nell’incredibile bellezza che l’abito invernale le dona, dalla forcella Toblin, sopra il rifugio Locatelli.
Saliamo la strada a pedaggio e dopo poche curve penetriamo lo strato di nuvole basse. La giornata è di quelle che tipicamente settembre sa regalare. Il sole è ancora basso e i raggi radenti colorano di rosso intenso la dolomia. Questo fenomeno i ladini, che ancora abitano queste valli, lo chiamano con un termine che è pura melodia: enrosadira. La leggenda racconta di un re, Laurino, che si innamora della figlia di un potente sovrano vicino. Decide di rapirla e di portarla nel suo regno, la cui cosa più preziosa è un giardino di rose. A tradire il re saranno però proprio queste. Infatti lo renderanno presto individuabile. A quel punto, vistosi perduto, il re le maledice trasformandole di giorno e di notte in pietre. Si scorda però l’alba e il tramonto quando, ancora oggi, tornano a fiorire. Dagli spalti ai piedi delle Tre Cime, simbolo stesso delle Dolomiti — chissà perché il tre esercita da sempre un fascino particolare sugli uomini — l’occhio viene catturato dal profilo della Croda Rossa d’Ampezzo che a quell’ora fiammeggia. E allora il pensiero va alle leggende che ragazzino mi appassionarono. Rivedo Moltina, la bambina cresciuta dalle Anguane, una sorta di ninfe delle acque e dei boschi, presa sposa dal principe di Landro. Legata alla montagna sulle cui pendici era cresciuta, questa partecipava delle sue emozioni. E così trovatasi a un ricevimento ufficiale, chiesto delle sue origini, Moltina prova imbarazzo infiammandosi in volto. Lo stesso farà l’alta montagna. Moltina e il suo principe avrebbero poi lasciato la corte per dare vita alla potente dinastia dei Fanes. Ma questa è un’altra storia, che racconta delle Conturines, della Croda del Becco — alla cui base sorge il rifugio Biella, nome che è retaggio del passato in cui il rifugio appartenne alla sezione laniera del Cai— del Lago di Braies e della barca che, una volta all’anno, nel solstizio d’estate, solca lo specchio d’acqua trasportando la vecchia regina e la figlia Lujanta in attesa paziente del tempo promesso, quando la fanfare reale tornerà a suonare e sarà il segnale tanto sperato. Questo è il mito, comune a quasi tutte le civiltà, dell’immaginata e perduta età dell’oro.
Intanto si cammina. In breve, su una traccia tra ghiaioni, si guadagna la forcella tra la Cima Grande e la Cima Piccola. Si ammira il famoso Spigolo Giallo della Piccola dove sono passati tutti i più grandi scalatori che hanno fatto la storia di questa disciplina. Mentre ormai si è all’attacco della parete e ci si infila l’imbrago, prima di legarsi, scorrono i volti in bianco e nero di Zsigmondy e dei fratelli Innerkofler visti in qualche vecchio libro o forse solo immaginati. Non fai tempo a partire che ti ritrovi a superare pareti, cenge, pulpiti, terrazzi. La salita è adrenalina e spettacolo. Sali e vedi il mondo dall’alto. Osservi la processione di gente che cammina lungo il facile sentiero che fa il giro delle Tre Cime. Tra le nebbie sbucano i Cadini, il Cristallo e la gigantesca mole del Sorapis. I passaggi non sono difficili, a parte un salto nel vuoto, qualche camino dove la roccia è talmente levigata che i piedi scivolano come sapone.
Ma si sale. La guida, Alberto, regala sicurezza. Con la guida si deve instaurare un rapporto di fiducia che è reciproco. Perché la mia vita è nelle sue mani, ma lo è anche viceversa. E qui mi si materializza di fronte, ancora una volta, l’immagine di Buzzati e della guida Gabriele Franceschini. I due furono legati da un legame di profonda amicizia. Intanto si supera anche il punto più difficile e poi ecco la cengia circolare, la famosa cengia che gira attorno alla cima. Qua e là vecchi legni testimoniano di quell’inutile strage che fu la Grande Guerra. Sono quasi due ore e mezza che si scala ma non ci si accorge del tempo che vola. La fatica, certo, si fa sentire. E poi ecco la croce. C’è il tempo per scattare qualche fotografia e scrivere sul libro di vetta un pensiero. Il mio è che questa scalata, la mia prima scalata, è un bellissimo regalo per i 40 anni. Non si può sostare a lungo lì, arrivano altre cordate. Bisogna scendere. E qui che viene il bello: le calate in corda. Non è facile lasciarsi andare, buttarsi schiena in fuori e lasciarsi cadere nel vuoto. Eppure solo così si può scendere. Vinta l’iniziale paura tutto diventa più semplice. Alla fine è un divertimento. Per scendere all’Auronzo si segue un altro itinerario. Passiamo sotto la parete della Grande e ci portiamo alla forcella che la divide dalla Cima Ovest. Ci infiliamo in un canalone che, complice la nebbia, nel frattempo salita ad avvolgere la montagna, sembra l’accesso al regno di Mordor. Da un momento all’altro potrebbe spuntare Smeagol in cerca del suo tessoro. Su ghiaioni e terriccio instabile si perde quota e in poco si è al rifugio.
Adrenalina, tante emozioni e le vibrazioni che i geni del luogo, sono nelle rocce levigate dal tempo e dal passaggio di molti scalatori, mi hanno saputo regalare.
Buzzati, si dice, fosse riuscito a dialogare con i geni del Sorapiss. In confidenza, gli avevano svelato che agli albori dell’alpinismo, tra una vetta all’altra, si era diffusa la voce che i pionieri delle scalate si portassero dappresso una buona bottiglia da stappare in vetta. Tutti, dai più alti ai più bassi picchi, avrebbero allora ambito ad essere calcati per suggere qualche goccio di quel nettare d’uva che doveva essere irresistibile. Peccato che poi quel gesto non venisse più ripetuto per lasciare spazio invece a un sempre maggior numero di umani che ai geni della montagna altro effetto se non quello del solletico lasciavano.